"50 e 50" è un film coraggioso poiché affronta il tema della malattia riuscendo nella difficile impresa di divertire, lasciando un velato senso di tristezza, senza per altro apparire dissacrante.
Il film si basa sulla vera storia dello sceneggiatore, Will Reiser, e del suo amico, Seth Rogen, che gli fu vicino quando si ammalò di una rara forma di cancro. Il protagonista della vicenda è Adam, ventisettenne con una vita tranquilla la quale viene letteralmente sconvolta dalla notizia di un tumore maligno. Da quel momento inizia uno stato di abulia alla quale il giovane riuscirà a reagire grazie al supporto del simpatico amico Kyle e della terapista Katie.
La pellicola, diretta da Jonathan Levine, esplora temi come amicizie, relazioni e incomunicabilità. Già proprio incomunicabilità perché è chiaro, all'inizio del film, che Adam sia circondato da persone ottuse che non capiscono e non riescono ad affrontare la sua condizione. Con il prosieguo ci rendiamo però conto che, forse, chi ha un approccio sbagliato alla situazione non è che gli sta accanto, ma proprio lui, così preciso e ordinato non rendendosi conto che la malattia è disordine.
Ottima l'interpretazione di Joseph Gordon-Levitt, uno dei più talentuosi attori del cinema contemporaneo che, oltre in film indipendenti come questo, dimostra di trovarsi a suo agio anche nelle grandi produzioni. Da applausi il resto del cast, da Angelica Houston a Anna Kendrick fino a Philip Baker Hall. Merita una nota a parte Seth Rogen, che interpreta il personaggio più interessante del film, Kyle l'amico di Adam. Forse la sua migliore interpretazione in carriera, la sua verve comica non stona nemmeno davanti al dramma, aiutata forse dal fatto che lui questa storia l'ha vissuta realmente.
Un'opera che merita di essere vista, con una buona regia, capace di dosare il tutto, creando così una storia che colpisce al cuore affrontando senza scrupoli la malattia, senza speculazioni drammatiche fino all'onesto finale.
-D.R.Cobb-
17 luglio 2014
15 luglio 2014
La Mafia Uccide Solo d'Estate - Recensione
Nel suo primo lavoro da regista Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, ci regala una pellicola in salsa agrodolce, una commedia che diverte e commuove.
Il filo conduttore del film è l'infatuazione di Arturo per la sua allora compagna di banco Flora; una storia d'amore che altro non è che il pretesto per raccontare gli episodi di cronaca accaduti in Sicilia tra gli anni '70 e '90. Il protagonista, infatti, nasce e cresce a Palermo e attraverso il suo sguardo innocente, tipico di ogni bambino, scopriamo cosa significhi davvero convivere con la mafia in una città dove regna l'omertà: alla domanda sul perché la gente viene ammazzata gli adulti rispondono «che è tutta questione di femmine».
Nel raccontare questa storia, Pif prende spunto dalla sua vita personale, ma più in generale dalle esperienze dei molti palermitani costretti a confrontarsi con il mondo mafioso. Questo lungometraggio riesce a mettere in luce la potenza della mafia, che penetra di nascosto nella vita di tutti i giorni, obbligando ogni personaggio a trovare un equilibrio per cercare di far convivere aspetti della vita assai diversi: esperienze quotidiane, come innamorarsi e andare a scuola, con le crude uccisioni. Nel prosieguo del film si nota anche la mutazione della città di Palermo, passando dall'assordante silenzio che quasi giustifica la mafia sino alla ribellione dei cittadini che partecipano con trasporto ai funerali del Generale Dalla Chiesa.
Passando alle note artistiche, Pif si è portato dietro la voce fuori campo che usa nel Testimone, espediente che non convince del tutto in quanto rende delle scene, di per sé piene di forza espressiva, molto didascaliche senza esserci, per altro, delle esigenze giornalistiche a giustificarlo. Altro aspetto che stona sono certi elementi lasciati sullo sfondo, in primis il fratello del protagonista che appare solo nella scena dell'ospedale per poi finire nell'oblio. Al regista il talento comunque non manca, forse non ha ancora trovato un linguaggio che traduca efficacemente il suo sguardo, ma questo come la tecnica si può acquisire col tempo.
Ricapitolando, "La mafia uccide solo d'estate" è un film che fa sicuramente riflettere, che parla della nostra storia e di quella di uomini e donne che hanno combattuto fino alla morte. Tutto questo però non è trattato in maniera pesante, l'intento e sì quello di far pensare, ma con un sorriso e divertendo. Chi l'ha detto che non si possono affrontare temi spinosi e importanti con una nota di umorismo? Non manca poi l'aspetto più serio, difficile per esempio non commuoversi per il finale del film, che ovviamente non racconto, ma che merita di essere visto, per cui consiglio, a chi non l'avesse già fatto, di recuperare questa piccola chicca del cinema italiano.
Chiudo questa mia recensione con le parole dello stesso regista, Pif, che mi sembra racchiudano efficacemente certi significati che il film trasmette: «La "sveglia" a me come a quelli della mia generazione ce l’hanno data le stragi del ’92, le morti di Falcone e Borsellino. Inconsciamente tutte le persone uccise dalla mafia ti spingono a fare delle scelte. Ed è grazie a loro che le conseguenze di queste scelte oggi non sono più violente. Ad esempio: io ho girato il mio film a Palermo senza pagare il pizzo a nessuno. Se l’ho fatto è grazie a chi è venuto prima di me»
-D.R.Cobb-
Il filo conduttore del film è l'infatuazione di Arturo per la sua allora compagna di banco Flora; una storia d'amore che altro non è che il pretesto per raccontare gli episodi di cronaca accaduti in Sicilia tra gli anni '70 e '90. Il protagonista, infatti, nasce e cresce a Palermo e attraverso il suo sguardo innocente, tipico di ogni bambino, scopriamo cosa significhi davvero convivere con la mafia in una città dove regna l'omertà: alla domanda sul perché la gente viene ammazzata gli adulti rispondono «che è tutta questione di femmine».
Nel raccontare questa storia, Pif prende spunto dalla sua vita personale, ma più in generale dalle esperienze dei molti palermitani costretti a confrontarsi con il mondo mafioso. Questo lungometraggio riesce a mettere in luce la potenza della mafia, che penetra di nascosto nella vita di tutti i giorni, obbligando ogni personaggio a trovare un equilibrio per cercare di far convivere aspetti della vita assai diversi: esperienze quotidiane, come innamorarsi e andare a scuola, con le crude uccisioni. Nel prosieguo del film si nota anche la mutazione della città di Palermo, passando dall'assordante silenzio che quasi giustifica la mafia sino alla ribellione dei cittadini che partecipano con trasporto ai funerali del Generale Dalla Chiesa.
Passando alle note artistiche, Pif si è portato dietro la voce fuori campo che usa nel Testimone, espediente che non convince del tutto in quanto rende delle scene, di per sé piene di forza espressiva, molto didascaliche senza esserci, per altro, delle esigenze giornalistiche a giustificarlo. Altro aspetto che stona sono certi elementi lasciati sullo sfondo, in primis il fratello del protagonista che appare solo nella scena dell'ospedale per poi finire nell'oblio. Al regista il talento comunque non manca, forse non ha ancora trovato un linguaggio che traduca efficacemente il suo sguardo, ma questo come la tecnica si può acquisire col tempo.
Ricapitolando, "La mafia uccide solo d'estate" è un film che fa sicuramente riflettere, che parla della nostra storia e di quella di uomini e donne che hanno combattuto fino alla morte. Tutto questo però non è trattato in maniera pesante, l'intento e sì quello di far pensare, ma con un sorriso e divertendo. Chi l'ha detto che non si possono affrontare temi spinosi e importanti con una nota di umorismo? Non manca poi l'aspetto più serio, difficile per esempio non commuoversi per il finale del film, che ovviamente non racconto, ma che merita di essere visto, per cui consiglio, a chi non l'avesse già fatto, di recuperare questa piccola chicca del cinema italiano.
Chiudo questa mia recensione con le parole dello stesso regista, Pif, che mi sembra racchiudano efficacemente certi significati che il film trasmette: «La "sveglia" a me come a quelli della mia generazione ce l’hanno data le stragi del ’92, le morti di Falcone e Borsellino. Inconsciamente tutte le persone uccise dalla mafia ti spingono a fare delle scelte. Ed è grazie a loro che le conseguenze di queste scelte oggi non sono più violente. Ad esempio: io ho girato il mio film a Palermo senza pagare il pizzo a nessuno. Se l’ho fatto è grazie a chi è venuto prima di me»
-D.R.Cobb-
8 luglio 2014
Diario di un Seduttore - Recensione -
Johannes e Cordelia sono i protagonisti di questo estratto filosofico intitolato "Diario di un Seduttore" tratto dal famoso AutAut di Kierkegaard. La trama è abbastanza banale se non fosse per la spiccata intelligenza del protagonista che ci induce a continuare la lettura. Anche se la protagonista femminile è sporadicamente presente e poco sviluppata, la controparte maschile riesce comunque a offendere il suo essere donna prendendo in considerazione la femminilità solo nel senso puramente fisico. Non trattandosi però di un romanzo ma appunto di un trattato filosofico possiamo sorvolare sulla trama e la storia per concentrarci sul pensiero e le convinzioni del suo ideatore.
Secondo Kierkegaard il modo d'essere proprio dell'uomo è l'esistenza che a sua volta è sinonimo di possibilità e scelta: l'essere umano esiste perchè costantemente sceglie. L'esistenza viene percepita come una successione di alternative che fanno parte della sua natura per questo motivo l'uomo in quanto esiste sceglie. L'autore ci spiega la sua filosofia esistenzialista mostrandoci le tre scelte di vita che l'uomo può compiere: vivere da esteta nella continua ricerca del piacere, vivere una vita etica dedicandosi alla morale convenzionale e vivere una vita puramente religiosa che rappresenta l'unica scelta possibile per chi vuole realizzarsi pienamente.
Il libro in questione tratta il primo stadio, ovvero quello estetico. L'esteta è un seduttore che vuole costantemente vivere nell'attimo, nel momento ricercando una fonte di piacere che però svanisce ogni qual volta il desiderio viene esaudito. L'immagine dell'esteta ci viene descritta come se egli fosse un cacciatore paziente che osserva la propria preda per non sciuparla e per riuscire a godere di lei al massimo attendendo il momento opportuno per attaccare. La sua elegante figura riesce a manipolare ogni situazione a suo favore grazie al fascino che emana lasciando le sue povere vittime in uno stadio confusionale. Il suo non è un godimento puramente carnale ma soprattutto spirituale ed intellettuale. L'esteta è diverso dal volgare seduttore perchè quest'ultimo cerca solamente di soddisfare i propri istinti animali, mentre l'esteta è molto più subdolo in quanto vuole nutrirsi soprattutto "dell'anima" delle sue vittime per poi cancellarle dalla sua esistenza.
Secondo Kierkegaard questo tipo di vita prima o poi diventerà insufficiente, monotona e senza senso manifestando così i primi sintomi della disperazione che ha sempre abitato nell'esteta. La costante insoddisfazione che ha portato a questa scelta di vita mostrerà ciò che essa è realmente: un illusione.
Questo è ciò su cui ci vuole far riflettere il filosofo: egli ci descrive minuziosamente, per mezzo di un diario, le fasi di corteggiamento dell'esteta Johannes a scapito della povera Cordelia per farci provare un senso di disgusto nei confronti di questo particolare stile di vita. Nelle opere estetiche di Kierkegaard egli sottolinea sempre come i fascinosi esteti debbano in realtà essere un esempio da evitare totalmente, ma la sua scrittura persuasiva ci porta a provare sentimenti quasi contrari alle sue aspettative e, anzi, qualche volta sembrerebbe che egli per primo abbia provato i piaceri di cui parla. Potremmo ipotizzare che in quanto filosofo e "studioso della vita" egli avrebbe potuto sperimentare tale tipologia di esistenza alla pari di uno scienziato che sperimenta le proprie teorie, oppure semplicemente potrebbe essere caduto in tentazione per poi pentirsi di tale scelta e rivolgersi verso una variante più casta, alcuni vociferano sulle somiglianze tra il testo e la sua vita privata con Regina Olsen ma non ci sono prove tangibili per poter affermare con sicurezza tali supposizioni.
Il filosofo danese era un uomo afflitto da una grande malinconia, introverso e strambo ma molto intelligente e brillante, come spesso capita in questi casi, ed è anche questo uno dei motivi per cui non possiamo parlare di autobiografia ma avvicinarci a questo testo attreverso le volontà del suo stesso autore.
- Valheesy -
Secondo Kierkegaard il modo d'essere proprio dell'uomo è l'esistenza che a sua volta è sinonimo di possibilità e scelta: l'essere umano esiste perchè costantemente sceglie. L'esistenza viene percepita come una successione di alternative che fanno parte della sua natura per questo motivo l'uomo in quanto esiste sceglie. L'autore ci spiega la sua filosofia esistenzialista mostrandoci le tre scelte di vita che l'uomo può compiere: vivere da esteta nella continua ricerca del piacere, vivere una vita etica dedicandosi alla morale convenzionale e vivere una vita puramente religiosa che rappresenta l'unica scelta possibile per chi vuole realizzarsi pienamente.
Il libro in questione tratta il primo stadio, ovvero quello estetico. L'esteta è un seduttore che vuole costantemente vivere nell'attimo, nel momento ricercando una fonte di piacere che però svanisce ogni qual volta il desiderio viene esaudito. L'immagine dell'esteta ci viene descritta come se egli fosse un cacciatore paziente che osserva la propria preda per non sciuparla e per riuscire a godere di lei al massimo attendendo il momento opportuno per attaccare. La sua elegante figura riesce a manipolare ogni situazione a suo favore grazie al fascino che emana lasciando le sue povere vittime in uno stadio confusionale. Il suo non è un godimento puramente carnale ma soprattutto spirituale ed intellettuale. L'esteta è diverso dal volgare seduttore perchè quest'ultimo cerca solamente di soddisfare i propri istinti animali, mentre l'esteta è molto più subdolo in quanto vuole nutrirsi soprattutto "dell'anima" delle sue vittime per poi cancellarle dalla sua esistenza.
Secondo Kierkegaard questo tipo di vita prima o poi diventerà insufficiente, monotona e senza senso manifestando così i primi sintomi della disperazione che ha sempre abitato nell'esteta. La costante insoddisfazione che ha portato a questa scelta di vita mostrerà ciò che essa è realmente: un illusione.
Questo è ciò su cui ci vuole far riflettere il filosofo: egli ci descrive minuziosamente, per mezzo di un diario, le fasi di corteggiamento dell'esteta Johannes a scapito della povera Cordelia per farci provare un senso di disgusto nei confronti di questo particolare stile di vita. Nelle opere estetiche di Kierkegaard egli sottolinea sempre come i fascinosi esteti debbano in realtà essere un esempio da evitare totalmente, ma la sua scrittura persuasiva ci porta a provare sentimenti quasi contrari alle sue aspettative e, anzi, qualche volta sembrerebbe che egli per primo abbia provato i piaceri di cui parla. Potremmo ipotizzare che in quanto filosofo e "studioso della vita" egli avrebbe potuto sperimentare tale tipologia di esistenza alla pari di uno scienziato che sperimenta le proprie teorie, oppure semplicemente potrebbe essere caduto in tentazione per poi pentirsi di tale scelta e rivolgersi verso una variante più casta, alcuni vociferano sulle somiglianze tra il testo e la sua vita privata con Regina Olsen ma non ci sono prove tangibili per poter affermare con sicurezza tali supposizioni.
Il filosofo danese era un uomo afflitto da una grande malinconia, introverso e strambo ma molto intelligente e brillante, come spesso capita in questi casi, ed è anche questo uno dei motivi per cui non possiamo parlare di autobiografia ma avvicinarci a questo testo attreverso le volontà del suo stesso autore.
- Valheesy -
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